Permettetemi una veloce digressione nei miei ricordi più dolci. Mi è sempre piaciuto andare a scuola. Fin dalle elementari, ricordo con gioia e una fortissima sensazione di trepidante attesa il momento di rientrare in classe. Agli inizi di settembre, quando ancora andavo alle elementari, in TV passavano continui spot sulle cartelle all’ultima moda (del momento), sugli zaini e anche sui quaderni, tutti firmati dal personaggio dei cartoni animati più in voga all’epoca. Niente Spongebob o Peppa Pig, ma Topolino, Poochie, Barbie. E dalle media in poi Eastpack e Invicta. Ricordo benissimo come bramavo, ogni anno, poter cambiare lo zainetto con l’ultimo modello uscito. Quello più proclamato e reclamizzato. E che dire degli strumenti di lavoro?
Quaderni, a righe o a quadretti, penne di tutti i colori, stilografica e cartucce di ricarica, scolorina (o bianchetto che dir si voglia), salvabuchi trasparenti o al massimo bianchi, ideali per i fogli con buchi da inserire nei raccoglitori. E ancora raccoglitori rigidi, cartelline per riporre i fogli, cartelle di plastica per l’ora di disegno o tecnica (alle medie), portapenne (che da morbido, di Mordillo, divenne rigido, di Pekkle, amico di Hello Kitty)…
Quanti ricordi. Oltre alla preparazione del materiale per l’inizio dell’anno scolastico, c’erano anche tutti i libri di testo da acquistare. E anche qui, per me, era una gioia poter finalmente portarli a casa. Libri che mi avrebbero accompagnato per tutto un anno. Di scoperte, di ansia, di studio, talvolta di frustrazione e rabbia.
E non posso non ricordare anche come i rapporti tra alunni e insegnanti fossero completamente diversi da come sono oggi (almeno secondo le cronache). Fatta eccezione per le elementari, dove era prassi dare del tu al maestro di turno, dalle medie in poi la vera #buonascuola insegnava il rispetto e l’ordine. Rispetto per docenti che erano più vecchi di noi, ai quali ci si rivolgeva rigorosamente con il lei. E che, quando entravano in classe, pretendevano il “buongiorno” e che ci si alzasse in piedi. Potrà sembrare fantascienza infarcita con un pizzico di esagerazione. Ma per lo meno, ci veniva insegnato a rispettare gli altri. A partire dagli insegnanti, per continuare con le persone che si sarebbero incontrate nel corso della vita.
E se, per disgrazia, capitava di prendere un brutto voto o una nota, ricordo ancora con terrore il momento in cui l’ho comunicato ai miei genitori. La paura folle della loro reazione, della punizione. Sì, perchè ai miei tempi, i genitori erano fervidi e accaniti sostenitori degli insegnanti. Arrivare a casa con un voto che non fosse più che adeguato o, peggio ancora, con una nota, significava aver mancato di rispetto nei confronti degli insegnanti prima e del mio lavoro in secondo luogo. Sì, perchè lo studio era considerato al pari di un lavoro. Da svolgere con serietà e applicazione. Sempre e comunque. Senza scusa. I colloqui con i docenti erano momenti seri, in cui il genitore veniva aggiornato sui progressi o sugli incidenti di percorso. Ma soprattutto, gli insegnanti avevano sempre ragione. Qualsiasi cosa fosse successa.
Questa era #labuonascuola: un luogo di apprendimento, di passione (da parte degli insegnanti e dei ragazzi), di confronto e di scambio quotidiani. In cui l’ordine naturale delle cose non era (quasi) mai stravolto e in cui i docenti lavoravano con passione per trasmettere conoscenza e modus vivendi.
E adesso che sono mamma, non posso fare a meno di pensare a come sarà l’esperienza scolastica per le mie bimbe.
Sarà altrettanto piacevole e formativa? Sarà un percorso di apprendimento e di conoscenza, ma anche di rispetto e di ordine? Fatte salve le indicazioni che riceveranno a casa, saranno seguite ed indirizzate anche a scuola?
Speriamo di sì. Vista la riforma #labuonascuola di Renzi, mi auguro e auspico che il potere dato ai dirigenti scolastici non sia il primo passo verso una dittatura legalizzata. Come potrei spiegare loro cosa vuol dire libertà e meritocrazia?