Rieccomi, con la mia consueta e caratteristica vena polemica. Quando si cresce si ha a che fare con ogni tipo di persona. Da quelle gentili a quelle parassite, dalle persone buone che sembrano sceme, a quelle intelligenti, ma cattive. E poi ci sono gli ignoranti. E cattivi, per giunta. E quella, secondo me, è la categoria in assoluto peggiore che si possa incontrare sul proprio cammino. Persone grette, sfruttatrici, che navigano a vele spiegate nel loro mare di ignoranza. Soddisfatte di coltivare il loro piccolo orto marcio. In cui non cresce nulla se non altra ignoranza. Che va ad accumularsi con quella che già le contraddistingue. Aggiungendo merda ad altra merda. Il famoso detto “non vale la pena dare perle ai porci” è assolutamente vero. Forse dovrei cambiare la mia immagine di copertina e mettere questa frase lì, tipo monito. O slogan della giornata, della settimana, della vita.
Queste persone, che Dio tutto sommato le abbia in gloria, non si rendono conto di non-essere. Ma anche di non-avere. Sono carenti sotto molti punti di vista. Non solo per il cervellino minuscolo. Ma anche per tante altre caratteristiche che solitamente predominano nella razza umana. L’empatia, per esempio. Loro non sanno nemmeno cosa sia. Coltivando il loro suddetto orticello, non vedono ad un palmo dal loro naso. Non capiscono e non sanno. Punto. E la cosa peggiore è che quando glielo si fa notare, non comprendono in termini assoluti il discorso! Non capisco cosa facciano di sbagliato. E’ tragico, davvero.
E che dire della generosità? Appartenendo alla categoria dei parassiti, questi non-esseri, non disponendo (né capendo) l’empatia, l’unica cosa che sanno fare è chiedere, per loro stessi, senza dare nulla in cambio. Anzi. Quando, per disgrazia divina si chiede loro qualcosa, gli occhi si spalancano come tunnel vuoti. La bocca prende una piega simil-ghigno. La testa viene scossa a destra e a sinistra. No, no, no, non puoi chiedermi nulla. Io non posso. Ma soprattutto, io non voglio. Il loro motto è “quello che è tuo, è mio. E quello che è mio, è solo mio! Capito?”.
Parliamo anche delle affinità (non elettive, per l’amor del Cielo). Queste persone si sentono affini solo a loro stesse. O a coloro i quali possono, in qualche misura, far loro comodo. Se mi puoi servire, scatta qualcosa nei miei neuroni che mi dice che sì, mi sei simpatico, per il momento. Per cui sento nei tuoi confronti una sorta di affinità. Dettata dalla necessità di avere quello che mi serve e della convenienza di mantenere un rapporto di comodo con te. Quando non posso più avere niente da te, allora non siamo più affini. Non siamo più amici, né parenti, né buoni conoscenti. Che poi, queste persone, come fanno a parlare di amicizia? Cos’è l’amicizia per loro? E’, come ho già detto, una questione puramente di comodo. Non è uno scambio alla pari, né mai lo sarà. E’ un rapporto unilaterale, in cui il non-essere trae il maggior beneficio possibile, finché può e finché il malcapitato di turno ci sta. Dopo di che, quando lo sfruttato si ribella o chiede qualcosa in cambio, viene tacciato di maleducazione e poco rispetto. Ah! Rispetto? Beh, il rispètto (ant. respètto) s. m. [lat. respĕctus –us «il guardare all’indietro; stima, rispetto»]. – è il “sentimento che porta a riconoscere i diritti, il decoro, la dignità e la personalità stessa di qualcuno, e quindi ad astenersi da ogni manifestazione che possa offenderli” (cit. Treccani). Ovvio che un discorso di questo genere va molto al di là della comprensione dei non-essere. Però un qualche sparuto barlume di consapevolezza dovrebbe accenderlo nei loro cervelletti.
Potrei anche accennare al tipo di comportamento che tengono, queste persone. Vogliono sapere tutto di te, chiedono, si informano, spiano. Ma, nel momento in cui sei tu a voler sapere qualcosa (mica quanto hanno in banca, eh?), allora si chiudono nel mutismo più criptico. Fanno le cose di nascosto (anche se riguardano te direttamente), cercano di manipolare e manovrare la tua vita, nel bene e nel male. Anzi no, soprattutto e solo nel male.
Siccome il mondo è pieno di non-essere, alle mie figlie insegnerò a stare in guardia. Insegnerò come riconoscerle e come trattarle. Come interagirci (se proprio necessario) e come cercare di evitarle. Il più possibile. Come la peste più nera.