Un anno fa accadde il prevedibile acquattato sotto la sabbia. Lo stress, la stanchezza, la voglia di essere sola, le urla incessanti, gli after-hour continui, la gestione del quotidiano stravolta. Un anno fa, la mia vita è cambiata per sempre. No, non parlo delle bambine, ma di altro. Certo, le bambine c’entrano eccome. Ma la colpa non è e non sarà mai loro. Vorrei che questo post avesse una funzione catartica, ma so che servirebbe ben altro. Servirebbe che uscissi anche io dal mio guscio, accuratamente costruito e rinforzato, anno dopo anno, vicenda dopo vicenda. Servirebbe che lasciassi da parte l’educazione militare ricevuta per lasciarmi andare al trash che alcuni amano tanto. Servirebbe e basterebbe che dimenticassi, per un attimo soltanto, che sono diventata un’adulta a tutti gli effetti ora che ho due figlie, e provassi ad essere una giovane. Col cuore da vecchia già da tempo.
Lasciatemi raccontare una storia. Ci sono episodi che solcano e scavano l’animo come pochi sanno fare. Tanti ti possono ferire. Tanti ti possono segnare. Ma ce ne sono alcuni che si imprimono nella mente, nella memoria, nel corpo e nello spirito e da lì non se ne vanno più. Li puoi ammansire, tentare di mitigare. Puoi cercare di renderli meno dolorosi con pillole di pseudo-freschezza e tranquillità, ma non se ne vanno. Sono sempre pronti, in ogni momento, a riempirti di nuovo la testa di urla e scenate e atmosfere surreali. Di colpi al cuore che non pensavi (né speravi) ti avrebbero mai raggiunta. E nel momento in cui il tuo piccolo mondo ti crolla addosso, pensi solo ad una cosa: a scappare. A lasciarti tutto alle spalle. A fare un sano e giusto mea culpa.
A riconoscere che sì, ti sei sbagliata. Che il castello che avevi costruito si fondava su carte da gioco scadute, lise. Che al primo soffio di vento potente è venuto giù. E dalle macerie è difficile risalire. Non sei l’araba fenice e forse nemmeno vuoi esserlo. E allora pensi a cosa puoi fare. A cosa non vuoi più fare, né tollerare, né subire. E non sai che decisione prendere. Qualcuno sarà comunque scontento. La vita di qualcuno, volente o nolente, cambierà gioco-forza.
Dovresti parlare, sì. Sarebbe la soluzione migliore. E allora lo fai: due, tre, quattro volte. Ma la situazione rimane quella, non cambia. Non vieni capita. Agli altri non interessa capirti. Come le due rette parallele e vicine che non si incontrano mai, anche nella vita capita che, sfidando le leggi della geometria, si tenti di intrecciare le rette. E si pensa pure di esserci riusciti. Ma in realtà, non è così. Rimane tutto come prima. Solo la stanchezza e il senso di spossatezza aumentano. E la consapevolezza tristissima di non essere capita, né apprezzata, né amata. Almeno, non nel modo in cui vorresti tu.
E trovi dei muri di gomma contro cui le tue paure e le incertezze e le richieste di aiuto rimbalzano. E tornano indietro come boomerang. E allora, l’unica cosa che vuoi, per te e per quelli che ami, è dire basta. Quando gli insulti peggiori ti vengono mossi da chi hai aiutato e supportato anche a costo della tua felicità, qual è la soluzione migliore?
Molto spesso non si può perdonare. Né tanto meno dimenticare. Non dico alimentarsi di un sentimento d’odio, questo no. Ma tenere i ricordi in cassetti della memoria ben specifici, pronti all’uso, questo sì. Lo si deve fare. Per ricordare. Per non ripetere gli stessi errori. Per rialzarsi e ripartire dopo una brutta, orribile caduta. Guardando indietro con un misto di lontananza e indifferenza. Indispensabile per fare in modo che le ferite prima o poi si rimarginino.
Perché, prima di tutto, c’è la propria dignità e la propria felicità. Ma soprattutto, il RISPETTO, non solo per gli altri, ma anche per sé stessi. Senza di questi componenti, è impossibile essere una persona serena e, di conseguenza, una buona madre.