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Ricordi di un’estate

NonRicordo3-420x420Agosto 1992, Sardegna. Non la Sardegna glitterata e patinata dei VIP e delle starlette di turno. E nemmeno quella dei politicanti e dei giocatori di calcio. La Sardegna vera, rurale, dura e coriacea. A tratti anche ostile e sospettosa. La Sardegna dei sardi, per intenderci. Ero con mia mamma e mio papà, avevo tredici anni. Eravamo già stati in Sardegna parecchie volte. Mio papà, per lavoro, ci andava almeno una volta al mese, con la sua valigia consunta di pelle marrone, viaggiando sui voli della Alisarda. Per cui la conosceva bene. Aveva parecchi amici in Sardegna, una terra che ha sempre amato moltissimo, come si ama un rifugio e un porto sicuro in cui si torna a ricaricare le pile. E questi amici gli avevano permesso di scoprire l’anima vera di questo paese magnifico, bruciato dal sole e sferzato da venti scomposti e impietosi. Quell’estate la vacanza si compose di due parti, come piaceva a noi: una prima tranche dedicata alla visita dell’entroterra e delle sue località meno battute e una parte di relax e mare, a Castelsardo, in un villaggio turistico. Le visite che facemmo noi tre assieme mi permisero di scoprire scorci e paesaggi sconosciuti ai più: paesini di poche centinaia di abitanti in cui le donne, rigorosamente vestite di nero come corvacci, stavano appollaiate fuori dalle loro case, sedute su trespoli traballanti, ricamando, mondando verdure, cicaleggiando di storie di paese. Noi, gli stranieri o meglio quelli del Continente, eravamo guardati di sottecchi, con diffidenza e un misto di curiosità. Vestivamo in modo diverso da loro, parlavamo con un accento del nord, eravamo troppo colorati per i loro gusti.

Ad accompagnarci, a tratti, nel nostro viaggio di scoperta, un collega sardo di papà, di cui non ricordo né il nome né il viso. E’ più una presenza nebulosa e amica, quasi un moderno Virgilio. Tranne che noi non eravamo moderni Dante e non stavamo attraversando l’Inferno. Benché, con le temperature che spesso sfioravano i 40 gradi, soprattutto nell’entroterra, un pò di inferno c’era eccome. Nel nostro peregrinare in terra sarda visitammo parchi naturali sconosciuti, pozze d’acqua di un verde smeraldo incredibile, simile ai laghi dei paesi delle fate, rovine e nuraghe e molto altro ancora.

Ero felice, quell’estate. Ero con i miei genitori, il clima famigliare era rilassato e gioioso, mio papà dava il meglio di sé. Era un uomo di spettacolo. Avrebbe potuto tranquillamente fare il comico o il presentatore. Sapeva stare tra la gente, si faceva benvolere, sapeva farsi apprezzare e amare. Era simpatico e brillante. E amava mangiare bene. Per cui ogni pranzo o cena era un momento di condivisione del cibo e dei sapori. E la scelta del ristorante non era mai casuale, ma accuratamente studiata. Con ricerche, sopralluoghi, richieste di consigli da parte degli abitanti. Diffidava dei posti segnalati sulle guide (non sempre, ma spesso sì) e di quelli che non avevano il parcheggio strapieno. Diceva sempre che, se ci si imbatteva in un ristorante con camion parcheggiati, si era sicuri di mangiare bene. Per via dei camionisti, che dopo chilometri e chilometri di strada vogliono gustarsi piatti ben fatti.

Dopo il nostro tour della Sardegna, come dicevo, ci fermammo una settimana in questo villaggio turistico a Castelsardo. Un posto carino, costruito nella tipica pietra del luogo, con tanti piccoli bungalow seminati qua e là, con sparuti giardini bruciati dal sole, piante grasse, erba che chiedeva pietà e un sorso d’acqua. Il mare, neanche a dirlo, uno spettacolo.

Siccome, come detto, mio papà era un pò quello che si può definire un one-man-show, ogni occasione era buona per partecipare ai tornei organizzati dagli animatori, agli spettacoli serali in cui coinvolgevano gli ospiti, alle partite a carte o a calcio. Purché ci si attivasse e si facesse festa, mio papà era felice. Si trovava nel suo ambiente. Io, ovviamente, dietro di lui. Partecipavo anche io con gioia. Quell’estate, in coppia, rappresentammo (in playback) la canzone di Toto Cutugno L’Italiano. Lui interpretava il cantante, io facevo la chitarrista. Ero fiera di essere sul palco di fianco a mio papà. Che, da vero frontman, passeggiava su e giù tenendo il microfono come un vero professionista, incitava la folla a partecipare all’esibizione, a cantare con lui, ad applaudire. Io, un pò più dimessa, stavo dietro di lui e mi godevo lo show.

L’ultima sera di vacanza, come da tradizione di tutti i villaggi turistici che si rispettino, ci fu una grande festa. Non ricordo il tema. Quello che ricordo con un pizzico di nostalgia e di rimpianto è una grossa struttura in ferro che riportava la scritta CIAO. A fine serata, venne imbevuta d’alcool e accesa. Questo enorme, brillante, caldo CIAO rimarrà per sempre tra i ricordi più vivi di quell’estate ormai lontana. Mio papà si sedette sul muretto con la scritta alle sue spalle, la mano alzata a fare “ciao”, sorridente e riposato come non mai. Ho la foto a casa. Morì meno di quattro mesi dopo. Per me, quella foto, è un pò il suo modo di dirmi addio, ma anche arrivederci. Anzi no, CIAO!

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