Amo i mercatini delle pulci. Ultimamente non ho più avuto modo di frequentarli assiduamente, però rimangono sempre nel mio cuore, per tante ragioni. Prima tra tutte, l’innumerevole quantità di merce, cosine d’antan, quadri, giochi e ricordi di tempi passati che si possono scovare se si osserva bene. Badate, non guardare, ma osservare. C’è una bella differenza. A Bra, la mia città, ma anche a Cherasco, poco distante da Bra, ogni anno si tengono due manifestazioni importanti: l’una il lunedì di Pasquetta, l’altra di solito è ad aprile. A Cherasco ci sono stata solo una volta e non so né se ci tornerò ancora né tanto meno se ancora esiste questa manifestazione. Quello di Bra, invece, se posso lo frequento tutti gli anni. Aggirarsi tra le bancarelle e annusare il profumo di carta invecchiata, di soffitte ammuffite e di antico è qualcosa che mi riempie il cuore di gioia, ma anche di tristezza. Ricordo alcuni anni fa, con mia mamma, come da abitudine trascorremmo il pomeriggio del giorno di Pasquetta tra le vie del centro, ammirando, commentando, ridendo e comprando. Mia mamma acquistò un paio di orecchini antichi con zaffiri montati su oro giallo. Il colore della pietra era ancora vivido, mentre quello dell’oro era spento e polveroso, come se fosse rimasto a dormire in una scatola chiusa in cantina. E magari era proprio così.
Non ho potuto fare a meno di pensare a chi li avesse indossati, a quale fosse la sua storia. Magari erano appartenuti ad una ragazza che aveva vissuto la guerra, che aveva perso persone care, che aveva dovuto lottare per mantenersi e, per questo, aveva venduto gli orecchini. Per ricavarne un pò di soldi. O, peggio ancora, magari erano appartenuti ad una signora, diventata nonna, che aveva regalato i preziosi ad una nipote. La quale, incurante della storia e dell’importanza dei ricordi ad essi legati, aveva pensato bene di disfarsene. Sono tutte elucubrazioni a cui non potrò mai dare una risposta. Ma che mi fanno fare viaggi immensi indietro nel tempo, rievocando periodi storici ormai passati. Ma che, proprio a fronte del fatto di non averli vissuti, per me hanno un’aura magica e mitologica. Sono una grande appassionata del periodo della Seconda Guerra Mondiale e quando mi capita, durante le visite ai mercatini, cerco proprio oggetti legati a quello specifico periodo storico. Un momento in cui gli uomini, assoggettati da personalità dai tratti forti e subdoli, avevano come motto il memento audere semper di dannunziana origine. E, proprio sulle bancarelle, spesso e volentieri fanno bella mostra di sé elmetti, busti del Duce, cartoline spiegazzate in bianco e nero, passaporti e carte d’identità, portafogli. Guardandoli, forse penserete che sia matta, compio un balzo nel passato e immagino, vedo, vivo le vite dei proprietari di quegli oggetti. Che sempre mi provocano una grande tristezza. Perché chissà come si è conclusa la loro esistenza. Saranno tornati a casa dalle loro famiglie? Le cartoline che hanno spedito, saranno arrivate a destinazione? Quanti di loro hanno avuto la gioia di un abbraccio dopo tanto orrore?
Lo so, a tratti non sono normale. A molti nemmeno viene in mente di porsi domande o di fare viaggi mentali. Ma a me, invece, piace. Cartoline a parte, di cui non leggo mai i contenuti, perché mi sentirei come una voyeur che spia dal buco nemmeno troppo stretto di una serratura entrando senza titolo né gloria nel personale di qualcuno, gli altri oggetti mi affascinano perché raccontano una storia. Anzi, molte storie. Tutte diverse eppure tutte simili tra loro. Basta soltanto avere la pazienza di ascoltare (non udire) e la voglia di farsi catturare dalla magia del passato. Certo, come dicevo, i mercatini mi mettono addosso una liquida sensazione di tristezza, che mi calza a pennello per alcune ore, per poi evaporare via una volta rientrata nella mia vita quotidiana.
E che dire delle antiche pese, dei vecchi aratri e di altri oggetti di agricola memoria? Li ammiro sempre con affetto, pensando che anche i miei nonni usavano quegli strumenti (mio nonno Battista aveva una vecchia pesa in casa e la usava sempre e a volte mi permetteva di provarla). Quegli oggetti erano parte del loro quotidiano: quando la verdura o altri ingredienti venivano pesati con la bilancia stadera, con un pesetto che correva su e giù lungo l’asta di metallo. Quando i campi venivano arati dai buoi e zappati a mano. Faticando e sudando sotto il sole, la pioggia, la neve. Tutto ciò per me ha qualcosa di dolce-amaro. A tratti triste.
Perché un tuffo nella storia, semel in anno, è doveroso. Per non dimenticare e per riportare in vita le tante persone che ormai non ci sono più. Ascoltarne le storie e spolverarne le vicissitudini. Ma anche perché “La storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, messaggera dell’antichità”. E se lo disse lui, Cicerone, c’è da crederci.