
No, non è gastronomia. Né ricette né consigli di cottura o mantecatura. Non sarei la persona più adatta. Questa notte ho fatto un sogno: ero piccola, intorno ai cinque anni. Ed ero dai miei nonni paterni, nonna Rina e nonno Battista (Caterina e Giovanni Battista). Così ho deciso di parlarvi di loro, oggi. Una delle coppie più felici e sane e dolci che io abbia mai avuto l’onore di conoscere in tutta la mia vita. Una di quelle coppie che nascono in un altro secolo (1915 lei, 1910 lui), un secolo in cui niente è dato per scontato. Ogni cosa in più è una benedizione e la vera ricchezza è avere figli sani, un lavoro, una casa e tanti nipotini che ti corrono per casa. I miei nonni si sono conosciuti alla Festa ‘n Fey, una tradizione per gli abitanti di Bra. Fey è una zona tra campi e vigne nel Roero che si tiene da decenni ormai a settembre, subito dopo la festa patronale di Bra della Madonna dei Fiori.
Lei 15 anni, lui 20. Mio nonno amava raccontare che si innamorò di mia nonna a prima vista. Lei era “bianca e rosa” come un fiore. E del fiore, ma se ne sarebbe accorto dopo, non aveva nulla se non i colori. Donna rigida e decisa, a tratti testarda, nonna Rina si scioglieva solo con i nipoti e con mio papà, il figlio prediletto. Comunque, la loro è stata una storia d’amore vero. Hanno avuto, certo, i loro problemi, ma li hanno sempre affrontati col sorriso. Tranne quando è mancato mio padre, ma questa è un’altra storia. Da piccola ho avuto la fortuna di vivere entrambe le nonne, un giorno da una, il giorno dopo dai nonni paterni. Ci passavo i pomeriggi, in attesa che mia mamma o mio papà venissero a recuperarmi. I giochi erano pochi, più che altro bambole di pezza e un orsetto della Coccolino. E allora per passare il tempo, mia nonna mi insegnava a cucire. Lei era brava con il cucito. Nella stanza dei ragazzi, un ambiente freddo per via del riscaldamento sempre tenuto chiuso, troneggiava in un angolo una macchina per cucire Singer. Ricordo che aveva una sorta di pedale che mia nonna pestava ritmicamente, passando le stoffe da cucire avanti e indietro sotto la punta di metallo che, come per magia, rattoppava, cuciva, creava. Insomma, la macchina da cucire a me era preclusa, ma ago e filo no. Quelli me li concedeva. Mi aveva messo a disposizione una scatola con fili, bottoni colorati, forbicine a punta tonda e un bel fazzoletto ricamato. Quello era mio e potevo farci cosa preferivo.
Allora, mentre lei seduta al tavolo della cucina attaccava bottoni, faceva orli, sistemava camicie, io cucivo bottoni sul mio fazzoletto. Lei infilava il filo nella cruna dell’ago, facendo il nodo al fondo con una mano sola (e già quello mi pareva una magia indescrivibile) e poi mi lasciava lavorare. Mentre cucivamo insieme, mi raccontava storie della sua famiglia e di quella di nonno Battista. Il padre mai amato veramente, la mamma, dolce e comprensiva e stoica, che sopportava tutto per amore della famiglia e della figlia. Il fatto che suo padre, uomo all’antica e parecchio retrogrado, le avesse proibito di continuare gli studi dopo la Sesta Classe. Le maestre di mia nonna avevano provato a insistere col genitore, dicevano che mia nonna aveva del potenziale, che poteva diventare insegnante. Ma lui niente, fermo sui suoi pensieri maschilisti aveva deciso che il posto di mia nonna, una femmina, fosse a casa. Quando lo raccontava si sentiva dal tono di voce che era dispiaciuta. C’era sempre una nota di rimpianto. Ma così era stato e non valeva la pena di rimuginarci troppo. Lei, comunque, aveva continuato a leggere e ad informarsi. Era una donna intelligente. Anche senza un diploma.
Alle quattro in punto, ogni pomeriggio che ero da loro, si interrompevano i lavori di cucito per fare merenda. Messi da parte scatole e abiti, la nonna portava in tavola il budino al cioccolato o la merendina Fiesta. Era il budino più buono del mondo per me. Tante piccole ciotoline ben allineate nel frigorifero aspettavano solo di essere mangiate. Accesa la TV, guardavamo insieme un pò di cartoni animati del programma Bim Bum Bam. Sedute io e lei sul divano rivestito di tessuto marrone, in tinta con la tovaglia e con le tende del cucinotto. Dopo i cartoni, mia nonna si sedeva sulla sedia con schienale reclinabile rosso fuoco, io su una sedia intorno al tavolo, e si ricominciava con i racconti e i ricordi.
A volte capitava che la signora che viveva sullo stesso pianerottolo passasse per una visita. Mia nonna mal la tollerava, ma per ragioni di buon vicinato non lo dava molto a vedere. Se poi l’incauta si presentava da loro con un minimo di raffreddore o tosse, appena usciva mia nonna ordinava a mio nonno di disinfettare l’aria. Come facevano secondo voi? Bene, prendevano un pentolino, lo posavano per terra, lo riempivano di alcool etilico e gli davano fuoco. Secondo loro, il fuoco bruciando avrebbe ucciso i batteri che la signora aveva lasciato dietro di sé. Non so se ci sia un fondamento scientifico a questa tecnica. Di sicuro mi affascinava e mi divertiva.
La cucina dei miei nonni non era grande, ma per me era super-accogliente. Primo perché aveva l’odore dei miei nonni, delle pietanze appena cucinate, dei sorrisi e degli scherzi di mio nonno. Secondo perché i mobili che la arredavano erano e sapevano di antico. Non erano mobili pregiati, ma venivano da un’altra epoca e a me tanto bastava.
Ricordo con affetto mio nonno, un uomo buono oltre ogni immaginazione, che prendeva in giro mia nonna, scherzando continuamente. Aveva sempre il sorriso sulle labbra, la battuta pronta, i baci facili. Mi abbracciava e mi coccolava. Entrambi parlavano prettamente piemontese, anche con me. Mi duole dire che, nonostante tutto, mi sono sempre rifiutata di imparare a parlare dialetto e oggi è qualcosa che mi manca davvero molto. Una parte di me e delle mie origini che non potrò passare alle bambine. Pazienza.
Insomma, di tutte le stanze della casa dei miei nonni, quella che ho vissuto maggiormente è la cucina. E ancora la ricordo con un pizzico di nostalgia e rimpianto. Come un luogo in cui sono stata felice, dove sono stata stra-amata, dove ho avuto modo di vivere due persone meravigliose che ancora dimorano nel mio cuore. Nonni, vi aspetto ancora, nei miei sogni. Non mancate.