Ho 36 anni, non 90, eppure a tratti mi sembra di vivere una vita parallela in cui tutti gli altri parlano, si esprimono, commentano in una lingua che non mi appartiene, che non riconosco più come mia. E come un maratoneta di quarta categoria, mi affanno e cerco di aumentare il passo, ma le riserve sono pressoché terminate e non ce la faccio. Annaspo, cado, mi rialzo, ma sono comunque sempre un passo indietro. Cronaca di tempi che cambiano, certo, come è ovvio e naturale che sia. Ma che, visti da chi tutto sommato continua ad apprezzare i bei poemi andati, la letteratura del secolo scorso e di quelli precedenti, senza dimenticare gli autori di oggi, risultano strani. O quanto meno, non riesco ad adeguarmi al panta rei. Non del tutto per lo meno.
Che poi, a dirla tutta, non si può nemmeno parlare di italiano che cambia. Sarebbe più corretto dire dell’italiano che si asserve alla lingua dominante di turno. E con un pizzico di gioia e di soddisfazione posso dire che non è il tedesco. Per lo meno, la maggior parte dei nuovi vocaboli che entrano a gamba tesa nel nostro dizionario provengono dall’inglese. Se non altro, l’inglese, è una lingua che amo profondamente. Per la sua semplicità. Ma a pensarci bene, in quanto lingua poco complessa, in cui con uno stesso vocabolo puoi dire mille cose, basta aggiungerci una preposizione, proprio non capisco come gli italiani madrelingua possano preferire la trasposizione di un termini in inglesitaliano piuttosto che usare il nostro magnifico idioma.
Dovremmo fare come i francesi o gli spagnoli, che hanno un forte senso di appartenenza alla loro etnia e che si sono rifiutati, per tutto questo tempo, di adottare e far propri alcuni vocaboli che anche noi, ormai, consideriamo parte della lingua italiana. Qualche esempio? Computer, per i francesi è ordinateur. Mouse per gli spagnoli è ratón, per i cugini d’oltralpe è souris. A noi mai verrebbe in mente di chiamarlo topo o topino. Quelli sono vocaboli che usiamo, a volte, nell’intimità o per chiamare i nostri figli. Italiani, popolo di santi (non più), di poeti (un tempo), di navigatori (se sono tutti come Schettino, che Dio ci salvi) e di amanti della colonizzazione. Al contrario, però. Amiamo essere assoggettati ad un altro popolo. Perché pensiamo di essere inferiori, pur con tutta la nostra prosopopea, pur con tutti i discorsi di amor patrio. Ci infiammiamo solo nel momento in cui si giocano i mondiali di calcio o se provano a rubarci le origini di Cristoforo Colombo. Per il resto, abbassiamo il capo con orgoglio servile ma, sia ben chiaro, sotto una bandiera tricolore che sventola eh? Eh certo, la bandiera. Non ci scandalizziamo nemmeno più di tanto quando gruppi di estremisti islamici la incendiano in piazza Duomo. Anzi, li giustifichiamo.
Comunque, tornando alla questione della lingua, ecco alcune parole che sono ormai di dominio comune, inserite nel parlare comune.
Conf call: ovvero, telefonata. Però, almeno sul lavoro, vuoi mettere quanto fa figo dire “oggi pomeriggio ho una conf. call con il tizio XY”? All’interlocutore pare che l’appuntamento telefonico lo si abbia con nientepopodimeno che Obama in persona, mentre la realtà è ben diversa. Magari si deve solo chiamare il verduriere sotto casa per ordinare la spesa.
Skype call: vedi sopra, solo che lo strumento usato è Skype, amatissimo da tutti quelli che desiderano video-chiamare parenti, amici o anche clienti senza dover spendere un euro in più rispetto al costo della connessione internet, pardon, della connessione alla rete.
Follow-up: letteralmente, far seguito. Viene usato un pò ovunque per indicare, molto semplicemente, un controllo post-qualcosa. Dopo un evento, dopo un intervento chirurgico, dopo una terapia. E’ un insieme di procedure che vengono dopo qualcosa, per verificare un risultato. Capisco che follow-up sia più immediato e corto. Ma santo cielo, le parole che impieghiamo in un discorso non le paghiamo mica! Per ora…
Sharare: non so se lo dicano altri, ma a me è venuto immediato nel momento in cui ho dovuto con-dividere uno strumento di lavoro con una collega. E così, anziché dire, “possiamo dividercelo?”, mi è venuto spontaneo coniugare il (forse) neologismo sharare, dall’inglese to share, condividere. Perdonatemi, se potete…
Ti whatsappo: ovvero, ti mando un messaggio su whatsapp. Bruttissimo, sembra quasi una minaccia. “Oh, guarda che dopo ti whatsappo eh?”. Pensate a qualcuno che ve lo dice in tono minaccioso, mette i brividi. Secondo me, se Dante fosse ancora vivo, si getterebbe di gran carriera nell’Arno. Oltre a rifiutarsi categoricamente di scaricarla questa applicazione. Lo vedrei bene, invece, con Twitter. Una Divina Commedia a puntate, un tweet qui e uno là.
Start up: in questi ultimi mesi è tutto un proliferare di start up. Legato al mondo dell’industria e dell’economia, vuol semplicemente indicare l’avvio di una nuova attività, di una nuova impresa. E allora dire “avvio” o “nuovo inizio” o “lancio sul mercato” vi fa schifo? Provate a chiedere agli inglesi di dire “inizio”. Manco riescono a dire “cellulare” (che suona sempre più o meno così “celliulare”), figuriamoci qualcosa di più complesso.
Personal jobbing: ovvero, come promuoversi in termini professionali, principalmente tramite gli strumenti in rete (da LinkedIn ad altri). Questo concetto risulta difficile da esprimere, in due parole, in italiano. Ma suvvia, facciamo uno sforzo. Parliamo la lingua più bella, ricca, prestigiosa e musicale del mondo. Perché abbatterla e mortificarla, quando invece possiamo farne un buon uso, invece di un abuso?
Report: resoconto o rapporto. Ma anche qui, come nei casi precedenti, per darsi un tono si preferisce usare l’omonimo inglese piuttosto che il più banale italiano.
E di esempi ce ne potrebbero essere molti altri ancora. Ma mi fermo qui. Dico solo che, tutto sommato e vista l’involuzione attuale della lingua, preferisco ancora tapparmi naso e orecchie e tollerare uno “scialla” o un “cozza” o ancora un “facebookkiamo” a tutto il resto. Che poi, a ben vedere, l’evoluzione (o involuzione, in questo caso) non si può fermare. Ai posteri, dunque, l’ardua sentenza.