Ci avete fatto caso? Che sia sul treno, in metropolitana o in coda per pagare bollette e affini, spesso il contatto prolungato (e forzato), spinge le persone a parlare tra loro. E anche a raccontarsi, a volte. A me è successo spesso. Addirittura nei negozi. Illustri sconosciuti che mi hanno raccontato, di volta in volta, le loro peripezie sentimentali, famigliari, amicali.
E io, riservata di natura, le prime volte rimanevo a bocca aperta come un pesce preso all’amo. Come può raccontarmi questa cosa così personale, così delicata? Poi, crescendo, ho capito perché. Lo sconosciuto ha il valore e il peso di un lampo: dura poco e non lo incontri più (forse). Non giudica. Non dà giudizi di valore. Non scruta, osserva. Annuisce e basta. A meno di non sollecitarlo apertamente ad una risposta. Cosa che, per altro, è meglio non fare.
Lo sconosciuto non fornisce consigli non richiesti e, mai e poi mai, richiede un’uguale e contraria attenzione. O quasi mai. Lo sconosciuto capita sulla tua strada per caso, soggiorna nel tuo spazio vitale per un tempo limitato, e poi se ne va.
Ecco perché è facile aprirsi, con gli sconosciuti. A me personalmente è successo di ascoltare confessioni pericolose e imbarazzanti, salvo poi chiuderle nel cassetto delle memorie estranee. Se dovessi incontrare le stesse persone che con me si sono aperte, sono sicura che non le riconoscerei. Perché, in me, ha prevalso l’imbarazzo più che la curiosità. Ascoltavo, sì, ma senza fissare troppo. L’unica cosa che contava era l’incontro tra udito e parola. E la voglia che tutto finisse presto.
Per rientrare nel mio piccolo carapace sicuro e tutto il mondo (estraneo) fuori.
Adoro ascoltare, ma non le vicende private di perfetti sconosciuti. Perché in quei casi mi sento una voyeur senza tecnica nè esperienza. E non mi piace proprio.