Ero alle elementari, ma la situazione si verificò anche prima, all’asilo. A quel tempo ero una bambina piuttosto timida, arrossivo per qualsiasi cosa lasciasse il tracciato sicuro che ero abituata a percorrere. Dal chiedere informazioni al pagare il pane in panetteria, dall’incontro con persone che non conoscevo ad altre banalità. Arrossivo sempre e comunque se apostrofata una volta di troppo. Era una sensazione davvero spiacevole: una sensazione di calore che si irradiava velocemente come un fuoco di lava, partendo dalle guance e risalendo verso le orecchie. Che prendevano fuoco al pari della faccia in meno di un secondo.
Riuscivo a stabilire rapporti di amicizia e di confidenza solo dopo lunghe ed attente analisi, dopo aver ben ponderato chi mi trovavo di fronte e aver deciso se mi poteva andare bene o meno. Aggiungete a ciò il fatto che portassi gli occhiali (che allora odiavo profondamente, mentre oggi non me ne può fregare di meno), che non fossi esattamente filiforme (ma nemmeno obesa, intendiamoci) e che fossi stata “baciata” dal passaggio dall’età fanciullesca alla condizione di “signorina” troppo presto ed ecco che la frittata era fatta. I bambini posso essere spietati. I bambini sanno essere cattivi e terribilmente diretti, senza filtri e senza un minimo di umana empatia. E’ normale, sono bambini. Non hanno ancora imparato l’arte della mediazione, né quella della normale decenza che dovrebbe regolare i rapporti con i propri simili. Ad ogni modo, tutto il periodo dalla prima alla quinta elementare, a fasi alterne, è stato costellato da eventi che hanno messo a dura prova la mia esistenza di bambina, ma che hanno anche forgiato ed indurito il mio carattere, portandolo piano piano ad essere quello che è oggi.
Nella mia classe c’erano due gruppetti: quello dei “popolari”, bambini e bambine che ad ogni pausa dalle lezioni si riunivano per giocare, chiacchierare, fare squadra, e quello degli “emarginati” composto, a turno, dai bambini e dalle bambine che venivano lasciati in disparte. Sempre per motivi diversi. Io entravo, a turno, in uno dei due gruppi. Non ero sempre “popolare”, ma nemmeno sempre “emarginata”. Dipendeva da come tirava il vento e da come i capetti di turno decidevano chi doveva stare in uno o nell’altro. E gli altri dietro, come pecore. I motivi per cui mi prendevano in giro, nel peggior modo possibile, con una crudeltà che spesso mi spingeva quasi sull’orlo delle lacrime (che però, per volontà e forza d’animo, di fronte a loro non ho mai versato) erano quelli sopra menzionati: gli occhiali, la mia condizione sconosciuta a tutte le mie compagne di classe e, in aggiunta, anche i miei berretti.
Ne avevo una vasta collezione: fatti in casa da mia nonna, acquistati da mia mamma, con pon-pon, di lana, colorati o a tinta unita. Li usavo, ahimè, perché soffrivo di mal d’orecchie e dunque era una conditio sine qua non il fatto di portarli, per non rischiare ogni inverno un’otite. Anche la mia corporatura robusta era tema di derisione. Ripeto, non ero obesa, ma il modo in cui mi sfottevano mi faceva sentire una balena spiaggiata lontana migliaia di chilometri dal posto naturale in cui doveva stare: il mare.
Non bastavano le prese in giro, già di per sé sfinenti, no. I miei compagni di classe, per meglio rimarcare, a periodi alterni, la mia condizione di “emarginata”, pensavano bene anche di non rivolgermi la parola, allontanarsi quando io mi avvicinavo per giocare, tirarmi addosso palline di carta appiccicosa durante le lezioni. Ridacchiando tra loro ed additandomi come se fossi un’appestata. Soffrivo per quei loro comportamenti e mi sentivo immancabilmente sola. Anche perché, anziché fare squadra con gli altri compagni tiranneggiati, ognuno pensava per sé. Ricordo ancora i mal di pancia, la sensazione di malessere, il desiderio di non tornarci, a scuola. Poi i periodi neri finivano, ricominciavo ad essere coinvolta, per poi rifare tutto daccapo, mese dopo mese, anno dopo anno.
Non ne ho mai parlato con i miei genitori, mi vergognavo troppo. Non ne ho mai parlato con le maestre, non se ne sarebbero curate. Possibile che, in 5 anni, non si siano mai accorte di quello che succedeva in classe? Possibile che non vedessero che, a momenti alterni, qualche alunno faceva la ricreazione da solo, senza giocare con nessuno, senza parlare, senza svagarsi?
Beh, quello che è capitato a me penso sia successo un pò a tutti. Non è paragonabile ai fenomeni di bullismo che accadono oggi, ben peggiori e ben più gravi. Certo è che a me è servito: a forgiare il mio carattere, ad insegnarmi ad essere più forte e a cavarmela da sola. Ma anche e soprattutto a non dare troppo peso agli idioti che ho incontrato e che incontrerò ancora sul mio cammino.
Il buon Dante, in fin dei conti, aveva ragione: Non ragioniam di lor, ma guarda e passa