Dopo una settimana da sola nel bunker del reparto di Pediatria, un giorno salgo nella stanza delle piccole e vedo che in un’incubatrice c’è una nuova arrivata. Maria Vittoria. Uno scricciolino di poco più di un chilo e mezzo. Bella come il sole. Mi giro e vedo entrare una coppia: lui bardato come un medico pronto a entrare in sala operatoria stile ER, lei in calzoncini rossi e maglietta nera. Ciao, sono Lucia. Ciao. La mia replica laconica. Poi ognuno si dirige verso i propri pargoli senza più guardarsi. O meglio, io li osservavo. Volevo capire cosa fosse successo. Ma soprattutto quanto si sarebbe fermata e dove sarebbe andata a dormire. L’arcano viene presto svelato: benché la gravidanza lei l’abbia portata a termine, la bimba è nata piccolina, per cui dovrà stare in incubatrice per tre settimane.
Qualcuno nella mia situazione, penso. Poverina. Poi d’improvviso ragiono sul fatto che non sarò più sola, in camera. E la cosa non mi piace. Sono diventata un orso in queste due settimane. Un orso abbruttito che non vuole fare nuove amicizie, né condividere i “suoi” spazi. Mi ero pian piano abituata all’idea di fare l’eremita. La camera delle nutrici era diventato il mio rifugio tranquillo, lontano dal reparto maternità, lontano dalle mamme felici e orgogliose che sbandieravano i loro piccoli appena nati. E poi di colpo arriva questa qui, con la sua bambina, a rompere gli equilibri precari raggiunti con grande difficoltà. Dove avrei potuto piangere in pace e sfogarmi, se c’era lei presente? Sarebbe stata una chiacchierona logorroica o una amante del silenzio come me?
Mentre mi lambiccavo il cervello in cerca di ipotesi plausibili, mi si avvicina e cominciamo a chiacchierare. Mi racconta la sua storia, che per dovere di privacy non riporto. E allora, come un lampo, mi torna in mente un incontro che avevo fatto in ascensore appena uscita dal pronto soccorso maternità, mesi addietro. “Ma noi ci conosciamo! Ci siamo incontrate in ascensore e abbiamo scambiato pareri sulle rispettive condizioni!” Sì, è vero!
Rotto il ghiaccio e cominciata la conversazione, scopro che è una bella persona. Che a differenza mia, sta vivendo la situazione di ricovero forzato in maniera molto serena e tranquilla. E’ felice che la sua bimba stia bene. Non le importa altro.
Ed è allora che capisco che ho sbagliato tutto. L’atteggiamento giusto è proprio il suo. Di pacata tranquillità. Di positiva rassegnazione.
Da quel giorno, la mia degenza in ospedale è stata si pesante, ma un pò meno. Forte del fatto di avere di fianco una persona che stava vivendo esattamente la mia stessa esperienza, con i relativi problemi, gli alti e i bassi.
Mi ha dato sollievo e mi ha aiutata ad andare avanti. Insieme abbiamo riso, pianto (senza farci vedere, per carità), preso caffè e passeggiato. Su e giù. Dal primo al quinto piano e ritorno. Insieme siamo andate nel locale tiralatte.
Ci siamo scambiate riviste, esperienze, confidenze e racconti.
Devo dire grazie a questa persona. Arrivata come un lampo nella mia vita, mi ha sostenuta e aiutata. Senza saperlo.
Ma l’ha fatto. E forse è per questo che, nonostante l’abbia poi rivista a quasi un anno dalle dimissioni dall’ospedale, la considero una delle mie più care amiche.
Lucia, grazie, sei stata la mia quercia di sostegno.