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12 maggio 2014

I Trentenni
I Trentenni

Lunedì 12 maggio 2014. Ore 14. Pronto soccorso del reparto di ginecologia e ostetricia dell’Ospedale di Busto Arsizio. Se il Buzzi era la mia seconda casa, l’Ospedale di Busto la potevo definire senza dubbio alcuno la mia dependance. Nel corso dei mesi, non ricordo nemmeno più quante volte ci sono finita, per i motivi più svariati. Ma sono state tante, tantissime. Ormai ero davvero considerata parte dell’arredamento, se non dello staff. Conoscevo per nome praticamente tutti: dalle ostetriche alle infermiere, dagli inservienti ai medici.

In mattinata avevo sentito delle contrazioni, troppe. Forti e dolorose. Non è ancora il momento, pensavo con angoscia. E più accarezzavo la pancia, più le contrazioni aumentavano di intensità. Pelle tesissima, dura, mani che sfioravano mani che tentavano di spingermi via.

Seduta nella sala d’attesa, con mia mamma, pensavo che dopotutto forse era stata solo colpa mia se questa gravidanza non procedeva liscia, come per (quasi) tutte le altre mamme in attesa. Ne avevo incontrate tante, di ragazze incinte. Nessuna di loro di gemelli, però. E questo le rendeva diverse ai miei occhi. Più fortunate. Non fraintendetemi. Il fatto di avere due piccole vite che crescevano dentro di me, l’ho già detto, mi facevano sentire la donna più fortunata del mondo. Ma paragonando la mia esperienza fino a quel momento, con quella delle altre mamme, mi portava inevitabilmente a guardarle con un misto di invidia e rassegnazione. Tutte si erano iscritte al corso pre-parto, io no. Tanto non avrei partorito naturalmente, ma con il taglio cesareo. Tutte facevano lunghe passeggiate e weekend fuori porta. Io no. Non potevo muovermi. Io uscivo solo per andare in ospedale. E l’elenco dei “loro sì e io no” potrebbe continuare all’infinito.

Finalmente chiamano il mio nome. Entro e come al solito saluto a destra e a manca. Le conosco tutte. Mi sento bene, lì. Sono tra persone fidate e amiche. Mi fanno stendere sul lettino e, dopo le domande di rito (settimane di gestazione, esami del sangue, ecc.), il ginecologo di turno monitora la situazione delle piccole. I liquidi sono a posto (evviva!), ma in effetti c’è un’attiva di contrazioni, nonostante la cervicometria sia a posto.

Signora, la dobbiamo ricoverare, per tenere monitorata la situazione. Non mi sento di rimandarla a casa, soprattutto considerando che le contrazioni sono iniziate troppo presto (ero alla 30+5) e, tenendo presente l’intervento cui si è sottoposta, meglio prendere qualche precauzione in più.

In quel momento ho capito il significato del mi è crollato il mondo addosso.

Va beh, vado a casa a prendermi la roba e torno.

No, non ha capito. Lei ci manda qualcuno, a casa. Di qui non si muove.

Esco dal reparto in sedia a rotelle (piangendo, per altro). Subito mia mamma mi chiede cosa sia successo. Glielo spiego. Le chiedo per favore di stare con me.

E’ incredibile quanto, durante la vita, per quanto adulti si possa essere, ci siano dei momenti in cui si ha comunque bisogno delle mamma. Su tutti. Avrei voluto anche Andrea con me, ma era al lavoro…

Vengo ricoverata nel reparto. Nella mia camera c’è una ragazza con i miei stessi problemi (contrazioni premature) e una signora cui hanno appena effettuato un intervento di raschiamento. Diciamo che, nonostante il reparto sia uno dei più lieti di ogni ospedale, nella nostra camera regna un silenzio carico di negatività.

Sono stata ricoverata dal lunedì 12 al mercoledì 14 maggio nel pomeriggio. Durante i tre giorni di ricovero, a parte leggere e chiacchierare con la mia vicina di letto, ogni 4 ore mi sottoponevano a tracciato. Controllavano l’attività contrattiva e i cuoricini delle piccole. Neanche a dirlo, mentre la gemella ex-donatrice stava buona e ferma al suo posto, la gemella ex-ricevente, avendo più spazio della sorella, non stava mai ferma. Era un continuo piroettare su e giù, a destra e a sinistra.

E il momento del tracciato era diventato un incubo. Per me e per l’infermiera di turno. Che doveva tornare ogni 10 minuti a risistemarmi le sonde. La sonda, pardon…

Alla sera, dopo la terapia della giornata e i vari monitoraggi a letto, mi portavano in pronto soccorso per il monitoraggio “serio”, quello con apparecchiature ultra sensibili, in grado di captare la frequenza cardiaca della piccola peste. Per due sere di fila, durante il ricovero, mi praticarono iniezioni di celestone (cortisone) per, a loro dire, “aprire i polmoni delle bambine”, nel caso in cui la situazione fosse precipitata e avessi partorito in anticipo.

Che dire, tutta la mia gravidanza è stata punteggiata da episodi, incontri e casualità che hanno portato verso un’unica strada. Terribile, sul momento. Ma bellissima, a posteriori.

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